Dal nostro inviato a Trieste
Recensione – Il teatro Verdi di Trieste chiude la stagione operistica con Tosca, ultimo dei sei titoli in programma. Opera di richiamo come nessun’altra, il capolavoro pucciniano più controverso, amato e detestato a seconda delle personali inclinazioni e preferenze, tornava in città a pochi anni dalla sua ultima comparsa, in un allestimento applauditissimo dal pubblico presente.
Lo spettacolo, con le belle scene di Adolf Hohenstein e la regia di Giulio Ciabatti è quanto di più tradizionale si possa immaginare. C’è Roma, Sant’Andrea della Valle, Palazzo Farnese e tutto il resto, c’è l’atmosfera papalina e lo sfarzo volgare della tirannia corrotta. I costumi di Anna Biagiotti, in linea con l’impostazione, riprendono le Tosche più classiche, le stesse cui si ispira la regia: il lavoro sui personaggi ricalca gli stereotipi con gusto e cognizione di causa, i caratteri sono lineari ma ben definiti, la scarsa fantasia è compensata dalla cura e dall’efficacia del risultato.
Alexia Voulgaridou era una Tosca convincente per personalità ed eloquenza, disinvolta sulla scena e curata nel fraseggio. Alcuna opacità vocali nelle filature e qualche eccesso di gusto in senso verista non inficiavano una prova positiva, molto apprezzata dal pubblico. Mario Cavaradossi era il tenore Alejandro Roy, cantante stentoreo, dotato di squillo e volume ma poco interessato all’approfondimento musicale ed interpretativo, autore di una prova sufficiente ma incolore.
Scarpia aveva corpo e voce di Roberto Frontali, baritono dallo strumento imponente e tonante, ben gestito in un canto vario ed incisivo. Uno Scarpia ancient regime, truce e bieco, perfettamente calato nel contesto registico, cui si perdona una certa ruvidezza in taluni passaggi di canto di conversazione. Al solido Sagrestano di Paolo Rumez si potrebbe rimproverare qualche eccesso caricaturale mentre Gabriele Sagona era un Angelotti meno autorevole di quanto ci si aspetterebbe. Positive le prove di Nicola Pamio (Spoletta) e Christian Starinieri (Sciarrone), ottimo il carceriere di Giuliano Pelizon. Deliziosa la giovane Emma Orsini, voce del Pastorello.
Coordinava il tutto la bacchetta di Donato Renzetti, autore di una concertazione coinvolgente e precisissima, attenta ai cantanti e alle ragioni del teatro senza scadere in effetti a buon mercato. Il suono era compatto senza essere pesante, il ritmo narrativo sostenuto, il sostegno al palcoscenico perfetto. Sugli scudi l’orchestra e il coro del teatro, impeccabili.
Paolo Locatelli
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