Il Festival letterario Pordenonelegge ha ospitato nella sua ultima giornata lo scrittore e professore Daniel Pennac, che ha presentato il suo ultimo romanzo “Storia di un corpo”. Autore di libri per ragazzi, nel 1985 Pennac comincia una serie di romanzi che girano attorno a Benjamin Malaussène, capro espiatorio di “professione”, alla sua inverosimile e multietnica famiglia, composta di fratellastri e sorellastre molto particolari e di una madre sempre innamorata e incinta, e a un quartiere di Parigi, Belleville. Nel 1992 ottiene un grande successo con “Come un romanzo”, saggio a favore della lettura, e nel 2003 compone “Ecco la storia”, dedicato alla scrittura del romanzo. Mentre si dedica alla stesura di questi saggi, si manifesta in lui l’attenzione per il tema del corpo. Un’attenzione maturata già agli inizi degli anni Ottanta durante un soggiorno in Brasile, quando però non possedeva ancora la “maturità fisica”, come ha dichiarato. Alla domanda se il suo ultimo libro rappresenti la maturità letteraria, Pennac risponde che la questione della maturità in ambito letterario rimane un enigma. Anche se riconosce di aver effettuato un certo percorso a partire dalle sue prime opere. “A diciannove anni – rivela – ho scritto un romanzo infantile, con personaggi stereotipati e descrizioni sommarie. L’ho distrutto senza pietà. Adesso posso dire di essere giunto alla maturità letteraria perché il mio corpo è giunto a maturità”. “Per scrivere questo romanzo – continua – erano necessarie esperienze che anni prima non avevo ancora compiuto, come il ricovero in ospedale che mi ha permesso di entrare più a contatto col mio corpo”.
“Diario di un corpo” è un romanzo tutto intriso di sensazioni materiali. L’esistenza diviene materia di narrazione, ma non si tratta di pura autobiografia precisa Pennac. “Diario di un corpo” è un insieme infinito di sensazioni e di sorprese legate all’evolvere del corpo, concepito come materia prima, come matrice della narrazione. “Il corpo è un luogo di solitudine – afferma – perché alla nascita e alla morte siamo da soli. Ogni volta che il corpo ci fa una sorpresa o si ammala, facciamo esperienza di questa solitudine. Una solitudine ontologica, primordiale”. Alla domanda se non sia un paradosso scrivere un romanzo sul corpo in questi tempi di sovraesposizione visiva del corpo, risponde: “Sì, certo che lo è. Però il concetto di pudore e di intimità che intratteniamo col nostro corpo rimane ancora un tabù”.
Un tema molto particolare e delicato quello che innerva il suo ultimo romanzo. Un tema che chiama in causa la libertà dello scrittore. Ma davvero la libertà è il primo diritto di uno scrittore? “Sì – risponde convinto Pennac – così come un altro importante diritto-dovere di uno scrittore è quello di non scrivere se non si ha niente da dire. A questo diritto si lega poi quello di non finire di scrivere un libro se non ne vale la pena. C’è infine il diritto di ricominciare a scrivere un libro, se non si è soddisfatti della prima stesura”. Ma l’insidia più pericolosa, mette in guardia Pennac, è il diritto al bovarismo, che nasconde la tendenza al narcisismo, all’autobiografia, all’autocompiacimento.
(foto a cura di Fabrizio Manias)
Vito Digiorgio