Recensione – Attila non è un capolavoro né ha quel richiamo sul pubblico che servirebbe per riempire un teatro, almeno non un teatro relativamente defilato e che non può contare su un bacino d’utenza da grande metropoli. Ne consegue che la scelta del Verdi di Trieste, schiettamente improntata all’antico adagio “fare di necessità virtù”, oggi più attuale che mai, finisce per rivelarsi un buco nell’acqua, non tanto per l’esito artistico (complessivamente apprezzabile), quanto per la totale disattenzione di chi a teatro dovrebbe andarci.
Attila tornava, a meno di un anno di distanza, sullo stesso palco, con lo stesso allestimento, lo stesso direttore e qualche modifica nel cast, ragioni a quanto pare inadeguate alle esigenze del pubblico che, è noto, ha sempre ragione. Ha ragione anche quando applaude convintamente uno spettacolo buono, omogeneo e scorrevole, che avrebbe meritato qualche attenzione di più.
Circa la regia di Enrico Stinchelli confermiamo quanto scritto in occasione delle recite dello scorso giugno:
Il regista Enrico Stinchelli sceglieva di enfatizzare la componente epica della vicenda, puntando ad una teatralità dal sapore quasi cinematografico. Scelta indovinata e capace di mantenere la tensione sempre alta a dispetto della staticità intrinseca di taluni passaggi del lavoro verdiano (anzi, verrebbe da dire del melodramma italiano del primo ottocento); va reso merito al regista di avere saputo alternare alle grandiose scene di massa, restituite nella loro crudezza e violenza dove opportuno, il giusto approfondimento delle ragioni dei personaggi, soprattutto per quanto riguarda il protagonista. Piacevano le scene di grande effetto curate da Pier Paolo Bisleri, integrate dalle proiezioni di Alex Magri (talvolta ridondanti o discutibili) e dalle luci di Gérald Agius Orway.
Facendo i necessari distinguo, possiamo rilevare, nel complesso, una maggiore proprietà stilistica e tecnica dei solisti impiegati nella produzione rispetto a chi li aveva preceduti. Faceva parzialmente eccezione Enrico Iori, cantante di bella voce e presenza, corretto e sorvegliato ma in difetto – almeno in occasione della prima – di quell’autorevolezza scenica e vocale che si è abituati ad accostare all’eroe unno. Iori cantava con gusto, fraseggiava bene e dava il giusto peso alle parole, tuttavia la voce risultava non di rado in debito di volume o in difficoltà nel registro acuto.
Rispetto alla scorsa estate il soprano Anna Markarova, Odabella, palesava non poche difficoltà sia nell’intonazione che nell’articolazione delle frasi. Il soprano riscattava parzialmente una prova complessivamente deludente nella seconda parte della recita.
Molto positiva la prova del tenore Sergio Escobar nei panni di Foresto; il cantante si dimostrava in possesso di un materiale vocale di pregio, con notevole squillo e volume. Ci sono ancora alcune mende tecniche da perfezionare ma il talento non manca.
Devid Cecconi era un Ezio vocalmente robusto e sonoro, musicalmente rifinito, nonostante un timbro non brillantissimo. Buone le prove di Antonello Ceron (Uldino) e Gabriele Sagona (Leone).
Donato Renzetti dirigeva l’orchestra del Teatro Verdi con eleganza e buonsenso, assecondando il palco con rispetto ma senza quella veemenza che aveva caratterizzato le recite dello scorso anno, finendo per mancare, qua e là, di quella tensione bruciante che infiamma le partiture del primo Verdi. Coro e orchestra si dimostravano all’altezza della situazione. Repliche fino al 31 maggio.
Paolo Locatelli
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