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HEDDA GABLER debutto nazionale è il 7 marzo al Politeama Rossetti di Trieste

Manuela Mandracchia diretta da Antonio Calenda è protagonista di Hedda Gabler, una fra le più problematiche e febbrili creature di Ibsen, attualissima nella sua inquietudine. Lo spettacolo – il cui debutto nazionale è il 7 marzo al Politeama Rossetti di Trieste – è la nuova produzione del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia con la Compagnia Enfi Teatro. Giovedì 7 alle 17.30 lo studioso Roberto Alonge, il regista e il cast presentano lo spettacolo nel corso di un incontro, in collaborazione con l’Università nell’Aula Magna di via Filzi 14.”

Debutto nazionale, giovedì 7 marzo, al Politeama Rossetti di Trieste per Hedda Gabler di Henrik Ibsen, nuovo spettacolo di produzione firmato da Antonio Calenda per il Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia e la Compagnia Enfi Teatro. Ne è protagonista una delle attrici di maggior spessore nell’attuale mondo teatrale italiano: sensibile, intuitiva, intensa, Manuela Mandracchia collabora per la prima volta con lo Stabile triestino e tratteggia una delle più problematiche, febbrili e seduttive figure femminili ibseniane. Accanto a lei, Antonio Calenda ha composto un cast di notevole forza espressiva – capeggiato da Luciano Roman (nel ruolo del giudice Brack) e in cui appaiono Jacopo Venturiero (Jorgen Tesman), Simonetta Cartia (la zia Juliane Tesman), Federica Rosellini (la signora Elvsted) Massimo Nicolini (Ejlert Lovborg), Laura Piazza (Berte) – con cui ha condotto un lavoro molto concentrato di analisi dei personaggi, dei loro slanci e dei loro moti interiori. Un lavoro che ha posto in luce la potente universalità del crudele testo di Ibsen, e la sorprendente modernità dell’inquietudine che vibra negli animi dei protagonisti, soprattutto in quello di Hedda Gabler: una donna tormentata e contraddittoria, gelida e altera, consapevole del proprio fascino eppure fragile nella sua intima frustrazione, nella sua incapacità di vivere la propria femminilità, ossessionata dal successo e rapita da un vortice di egoismo, rivalità, deleteria intransigenza… Ibsen – assieme allo scandinavo e di poco successivo August Stindberg – rappresenta un vertice assoluto nella letteratura teatrale ottocentesca, attraverso i cui modelli continua ad esprimersi, aprendone però le prospettive a nuove vie, a percorsi di piena modernità che egli ha il merito di prospettarci in tutta la loro complessità concettuale e profusione di suggestioni. Ancora intessuto di fili naturalistici ma anche di potenti suggestioni metafisiche, attraversato dagli influssi di Kirkegaard, ma anche da quelli di Balzac e di Dumas fils e di molta fondamentale letteratura tedesca che l’autore approfondì nei suoi oltre vent’anni di peregrinazioni fra Roma e la Germania, il Teatro di Ibsen non nega dunque i confini del teatro borghese, ma li abita con inquietudine, attraverso storie di tragedia quotidiana, aspre e palpitanti d’anticonformismo, che obbligano il pubblico a un proprio chiaro atto di coscienza e interpretazione. I personaggi, soprattutto le creature femminili, esprimono sempre uno o più nodi tematici che stanno a cuore all’autore, senza però apparire mai esemplificativi: conservano invece tutta la loro vibratile complessità, vivono ogni chiaroscuro, ogni contraddizione e ciò assicura ai loro profili ed ai loro conflitti dirompenza emotiva. «È in questo tormento scuro – commenta il regista – la chiave che li rende moderni, ciò che di loro conquista tuttora artisti e pubblico. Trovo da questo punto di vista molto significativo un prezioso intervento di Roberto Alonge, che sottolinea come Ibsen appaia come una sorta di gemello, forse ancor più geniale, di Freud. Capace di scavare nel pozzo nero dell’inconscio e di raccontare attraverso il suo teatro inquietudini di assoluta attualità: se da scienziato Freud esterna le proprie scoperte, Ibsen lo fa da artista… Depista, accenna, occulta, ma dalle pieghe del linguaggio, dalle ombre interiori è facile intuire quanti fantasmi incestuosi padre-figlia popolino la scena, quanti drammi psicologici, quanto l’oscurità abbia da rivelare». Appare alla fine riduttivo anche il ravvisare in Henrik Ibsen – come a lungo si è fatto – un portabandiera ante litteram dell’emancipazione femminile: le sue protagoniste, Nora in Casa di Bambola, la Signora Alving in Spettri e naturalmente la misteriosa Hedda Gabler ci offrono un mondo di induzioni ben più frastagliato. Scritto nel 1890 e andato in scena – con accoglienza gelida per la sua vis provocatoria – l’anno successivo al Residenztheater di Monaco, Hedda Gabler pone al proprio centro una figura che si discosta profondamente dall’ideale femminile coevo ad Ibsen. Dopo la morte del padre, il generale Gabler, con cui aveva condotto vita altolocata, la giovane Hedda si trova costretta a sposare per interesse un mediocre intellettuale piccoloborghese Joergn Tesman. Egli ambisce a una cattedra universitaria che gli spetterebbe di diritto e nella prospettiva di quest’incarico, per amore di Hedda ha contratto debiti, intrapreso un lungo viaggio di nozze e acquistato una villa. Rientrata dalla luna di miele, Hedda appare tuttavia insoddisfatta della sua nuova vita, annoiata, confusa dalla sua stessa femminilità enigmatica e ancor più dal fatto di essersi scoperta incinta, stato che invece il marito non sa intuire. La confusione nella casa aumenta quando riappare Løvborg un antico amore di Hedda, scrittore tutto “genio e sregolatezza” che ora è amato e ispirato dalla giovane Thea, e che potrebbe concorrere alla cattedra di Tesman. Hedda è subito infastidita da Thea, le si finge amica per rivaleggiare con lei, senza un vero motivo; Tesman appare impensierito per il futuro, ma leale. Una sera, ubriaco, Løvborg smarrisce il manoscritto che avrebbe dovuto portare a compiutezza il suo successo e ciò manda nella disperazione lui e Thea. Tesman lo ritrova, ma Hedda lo convince a tacere e brucia il capolavoro. Durante un incontro con Løvborg lo indurrà a uccidersi, fornendogli addirittura una delle pistole del padre generale, in un cieco slancio di volontà di potenza e di controllo del destino altrui. Ma la forza e l’individualità di Hedda varcano presto il confine della solitudine: ricattata e minacciata di scandalo dal giudice Brack, non confortata dal marito tutto intento a ricostruire assieme a Thea il capolavoro perduto, tormentata dalla frustrazione, la donna sceglie di uccidersi davanti al ritratto del padre. Hedda Gabler di Henrik Ibsen, nella regia di Antonio Calenda andrà in scena nella traduzione di Roberto Alone con le scene di Pier Paolo Bisleri, i costumi di Carla Teti, le luci di Nino Napoletano e le musiche di Germano Mazzocchetti.  

Repliche a Trieste dal 7 al 10 marzo, poi in tournée: fra le piazze, il 16 e 17 marzo Fermo (Teatro dell’Aquila) e dal 20 marzo Avezzano (Teatro dei Marsi). Lo spettacolo completerà il suo giro in Italia a partire da ottobre 2013.

 Giovedì 7 marzo alle 17.30 nell’Aula Magna di via Filzi 14, si terrà l’introduzione allo spettacolo Hedda Gabler: introdotto dal Rettore Francesco Peroni, parleranno lo studioso ibseniano e traduttore Roberto Alonge e il regista Antonio Calenda con i protagonisti. L’ingresso è libero.

Informazioni e biglietti per lo spettacolo sono disponibili sul sito www.ilrossetti.it. Per informazioni si può contattare anche il centralino del Teatro allo 040.3593511.

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