Vedendo il bicchiere mezzo pieno, ci si può rallegrare per il successo di pubblico che il Don Giovanni di Damiano Michieletto, e incidentalmente di Mozart, sta registrando alla Fenice, marciando al ritmo di un sold out dietro l’altro. D’altro canto c’è anche un rovescio della medaglia: questo non è più – o almeno non lo è per questo giro di riprese – lo spettacolo che fu. Certo l’idea di fondo è sempre la stessa, così come rimane immutato, anche se invecchiato e con qualche cigolio di troppo, il fenomenale impianto scenico di Paolo Fantin; però vi si avverte un’inerzia stanca e iniziano a latitare quella tensione e quel senso di coerenza dello sviluppo che parevano incrollabili ma che, probabilmente, tali non erano. Lo si deve in parte alle rivoluzioni nel cast – difficile sostituire il Leporello di Alex Esposito senza stravolgere il senso dello spettacolo – o forse a una ripresa della regia meno accurata del dovuto, con qualche sottolineatura di troppo e certi momenti buttati via.
Insomma, entrando nel repertorio del teatro, anche Don Giovanni si sta adagiando verso la routine. Niente di male, beninteso, si parla pur sempre di un grande spettacolo, che ha raccolto premi e consensi pressoché unanimi e che regge ancora su un’idea drammaturgica valida e forte. A tal proposito ribadisco quanto scritto in precedenza:
Viva la libertà! La libertà morale, intesa come coraggio di svincolarsi dagli obblighi sociali e dalle “imposture della gente plebea”, irrealizzabile chimera di uomini schiavi del sistema ed inevitabilmente attratti da chi riesca a spezzare le proprie catene per inseguirla, a costo della vita. Questo è Don Giovanni secondo Damiano Michieletto, regista cui il Teatro La Fenice di Venezia ha affidato la trilogia dapontiana, inaugurata da questo stesso titolo, ormai diversi anni fa, con un fortunatissimo e pluripremiato allestimento (scene di Paolo Fantin, costumi di Carla Teti e luci di Fabio Barettin).
L’impianto scenografico presenta gli interni di un palazzo tardosettecentesco, claustrofobico e vagamente decadente. Un efficace gioco scenico produce un continuo mutamento degli ambienti attraverso la rotazione delle pareti, restituendo l’impressione di un labirinto privo di vie di fuga. Don Giovanni è onnipresente, proiezione dei desideri femminili e delle aspirazioni (o dei complessi di inferiorità) maschili, signore del palazzo e delle vite altrui. La sessualità – in luogo della sensualità – è esasperata, la violenza esplicita ed abusata, massimamente nella figura del protagonista, guardato con orrore e disapprovazione dagli altri personaggi (quasi dei proto-borghesi) eppure continuamente inseguito. Un Don Giovanni rifiutato ma blandito, come fosse per loro, se non personificazione dell’inconscio, il lato oscuro di sé, il desiderio di assecondare i proprio istinti più biechi, animaleschi ed immorali. E tale è l’immedesimazione tra il libertino e i suoi interlocutori che nessuno di loro saprà sopravvivere alla morte del protagonista nel colpo di teatro finale escogitato dal regista.
Anche Stefano Montanari risulta meno convincente che in occasione della scorsa ripresa, perdendosi nella smania di voler dire troppe cose. La continua ricerca dell’effetto, la sottolineatura della sottolineatura, il procedere per strappi e distensioni, le esasperazioni delle dinamiche e delle modulazioni agogiche, oltre a dare un senso di frammentarietà, finiscono per rendere questa direzione – nemmeno troppo alla lunga – leziosa e barocca. Certo ci sono momenti felici, non mancano idee e intuizioni interessanti, però il quadro complessivo lascia il sentore di un horror vacui musicale che traballa sul confine della stucchevolezza.
L’orchestra è meno in forma del solito – almeno alla recita del 18 ottobre – mentre è sempre una garanzia la bravissima Roberta Ferrari al clavicembalo.
Alessandro Luongo è un Don Giovanni di bella voce e presenza, sa cantare – la Serenata lo dimostra alla perfezione – ma eccede nel cercare il grande gesto.
Francesca Dotto è una Donna Anna molto espressiva e musicale, in netta crescita rispetto alle prove passate, Omar Montanari un buon Leporello.
Stanno ormai stretti i panni di Don Ottavio ad Antonio Poli, che fatica a manovrare il suo vocione nella scomoda tessitura della parte, soprattutto sulle note di passaggio. Carmela Remigio ripropone la sua collaudatissima e temperamentosa Elvira.
Sorprende positivamente la Zerlina di Giulia Semenzato, voce di bella pasta e giusta verve, mentre risulta più pallido il Masetto di William Corrò. Per il Commendatore di Attila Jun vale un vecchio adagio: la potenza è nulla senza controllo.
Bene come sempre il coro preparato da Claudio Marino Moretti.
Teatro esaurito e successo pieno per tutti.
Paolo Locatelli