Ieri è andata in scena al Giovanni da Udine, per la rassegna di Prosa, la prima delle quattro repliche della tragedia maturata al culmine dell’attività drammaturgica di Henrik Ibsen, Hedda Gabler, per la regia di Antonio Calenda, che ha scelto come interprete protagonista l’indiscussa bravura di un’elegante Manuela Mandracchia e che ha coinvolto la produzione del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia assieme alla compagnia ENFI Teatro.
Una tragedia in due atti senza alcun sostanziale mutamento nel complesso del quadro scenografico (realizzato secondo due piani: l’uno, sul fondale e in parte oscurato da un pannello, di fronte all’altro, visibile del tutto), in cui emergono senza alcuna sbavatura la carica espressiva e drammatica di una rosa di attori che, in un processo che conduce inevitabilmente ad una catarsi sensitiva, riesce a svelare da dietro il sipario le zone crepuscolari dell’animo umano e le ombre che offuscano la psiche di chi è in lotta con se stesso, col mondo, e con il se stesso nel mondo, attraverso un’analisi per la quale si deve soltanto il merito all’acume del drammaturgo che, non a caso, è stato spesso accostato agli studi psicanalitici di Freud.
Un’opera che mette in luce un quotidiano affastellato d’inquietudine e con barlumi d’anticonformismo, riflesso soprattutto dalle figure femminili che nella veste di protagoniste assolute, come in tutti i capolavori ibseniani, danno forma alle vicende e dipanano lo svolgersi della trama come vere e proprie eroine maledette, perché dannate da mala fata, incapaci cioè di raggiungere i propri obiettivi e rendere realizzabili le proprie aspettative, e che rimangono tuttavia responsabili dei propri fallimenti e delle proprie disillusioni. Gli uomini invece sono attori di un destino che è costruito dalle donne, seppur non formalmente, perché retto da fondamenta sottili e profonde: Tesman, lo specialista aspirante accademico, il cui ruolo agente non è del tutto annullato, vive come una sagoma scura attorno alla figura apparentemente inflessibile di Hedda; lo scrittore Løvborg, tutto “genio e sregolatezza”, compie la sua redenzione, anch’essa illusoria, attraverso la relazione con Thea; ed il giudice Brack, personaggio che mantiene una certa autonomia, si muove invero all’interno di questo intreccio amoroso perché segretamente affascinato dalla bellezza ammaliatrice di Hedda. Dramma scritto nel 1890, la protagonista vi rappresentava un’ideale femminile completamente in controtendenza rispetto all’epoca perché molto più vicina al carattere d’una donna moderna: algida e altera, a tratti arrogante, insoddisfatta e portata per questo a sbagliare anche compiendo il male, agisce perché spinta dalla fame del successo al quale mira egoisticamente, conscia delle sue doti di seduttrice, della sua forza manipolatrice e dotata quindi di una certa volontà di potenza; in realtà fragile e tormentata, innescherà una serie di reazioni a catena nei rapporti tra i personaggi che la condurranno ad annientare se stessa.
Da segnalare, perché pieno di pathos, il meraviglioso dialogo tra Hedda e Løvborg, a seguito del primo incontro, in cui si congelano le ultime fiamme di una passione che conduce entrambi alla morte. Ottima l’interpretazione di Luciano Roman (giudice Brack) in un’espressività che si sostanzia in una tragica e compita tensione all’ironia. Un dramma d’una nuda bellezza da godere dall’inizio alla fine con uno spirito un po’ romantico, se siamo in grado di coglierne il grado di letterarietà e udire le sue eco (Wilde e Flaubert, prime fra tutte), scevri da ogni tipo di moralismo vittoriano, da cui oramai ci siamo affrancati per approdare ad altri, forse, e nuovi.
IN PROGRAMMA DAL 7 al 10 MARZO A TRIESTE TEATRO ROSSETTI
Ingrid Leschiutta
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