“Il futuro non arriva tutto d’un colpo, ma a tocchetti, così ti assuefai e non te ne accorgi”. Il 24 e il 25 gennaio 2014, Marta Dalla Via e Diego Dalla Via hanno portato in scena anche in Campania “Mio figlio era come un padre per me”. Vincitore del Premio Scenario 2013, è il quarto spettacolo di “Arrivi&partenze”, della stagione di Start/Interno 5 di Napoli per i Piccoli Teatri Metropolitani nel progetto Politeatro.
Testo intelligente, attori preparati, personaggi ben studiati.
Due fratelli. Due figli del benessere. Due vittime di una matrioska generazionale in cui “ la prima generazione ha lavorato, la seconda ha lavorato e risparmiato, la terza risparmiato e sfondato, poi siamo arrivati noi…”
Giada con stivali di peluche e body rosso, comunica con gli occhi a piccoli gesti il disincanto di chi, ormai, è carnefice in un mondo dove “se il prete è tuo socio, allora anche Dio è nel business”. Suo fratello con atteggiamento da manichino alla moda, occhiali da sole, pantalone viola è grinta senza violenza.
Marta e Diego Dalla Via portano in scena grandi provocazioni, ma non fini a se stesse. Poche e semplici attrezzerie, che diventano tutto ciò che serve alla regia. Quando il teatro è teatro davvero.
Il pubblico è vicinissimo, l’attenzione pregna di condivisione. Due veri artisti che osservano con ironia una generazione in cui si ha “la smania di voler lasciare un segno, che invece rivela la paura di non esistere abbastanza”.
Siamo di fronte ad un’opera che attraversa la società e le sue solitudini senza pietismi, ne facili cinismi. Senza “ismi”, appunto. L’umiltà e la verità del loro racconto, è tipica della genialità di chi nella storia dell’arte è riuscito ad imprimere forti contenuti con immagini semplici.
I due attori sono un corpo unico, un ritmo interiore che, fresco, dinamico, non ostenta, non si auto compiace. Credono in quello che dicono, realmente ripensano e riaffermano il loro fare, dire e sentire, in ogni istante.
Forse dovremmo, davvero, augurarci una società in cui siano vietati gli specchi, per tornare a sentire un amore filiale, una colpa genitoriale, una cerniera esistenziale, in umanità nostalgica di se stessa?
Mio figlio era come un padre per me, perché il puzzle dell’ emotività, del salto evolutivo è tutto da rifare. Necessari i respiri e ben goduti, infatti tra le note di una canzone del “Teatro degli orrori”, si compie questo avvenimento che “non è destinato alla rovina ma alla correzione della nostra stirpe. Ho vissuto per il domani, oggi ciò che rimane è il ricordo di un passato migliore!”
Eppure in questa “dittatura del successo travestita da democrazia”abbiamo riso tanto, pensato tanto ed applaudito tanto. Grazie.
Anita Laudando
“La prima generazione ha lavorato. La seconda ha risparmiato. La terza ha sfondato. Poi noi.
C’è ancora acqua che esce dai rubinetti, c’è corrente elettrica che nutre schermi e lampadine e c’è benzina nei serbatoi. C’è una bella casa, destinata a diventare casa nostra. È qui che abbiamo immaginato di far fuori i nostri genitori. Per diventare noi i padroni. Non della casa, padroni delle nostre vite. Niente armi, niente sangue. Un omicidio due punto zero”