Piuttosto che la strada per l’inferno, spesso sono i vicoli ciechi a essere lastricati di buone intenzioni. Non c’è infatti niente di infernale nel Bruckner di Michel Tabachnik, tutt’altro – alcuni passaggi sembrano ispirati da una luce celestiale – ma una sfilza di pregevoli propositi che rimangono appena abbozzati o completamente disattesi. Tanti bei momenti dunque ma anche parecchia discontinuità, soprattutto nel tenere insieme i pezzi e l’orchestra.
L’approccio del direttore svizzero alla Sinfonia n. 7 in mi maggiore avrebbe in realtà un qualche fascino: l’alleggerimento del suono ed un certo gusto per la trasparenza e la morbidezza sarebbero carte buone da giocare se calate in un contesto più coerente e definito. Però nel complesso la sinfonia zoppica.
A un Primo movimento che mescola estrema pulizia e raffinatezza a qualche pasticcio di coesione, segue un Adagio inconcludente e sghembo in cui i diversi momenti faticano a fondersi. È proprio qui, nel cuore della Settima, il lungo, devastante addio a Wagner, che il meccanismo si inceppa. Il quadro è (più o meno) corretto e pulito ma desolatamente asettico: i pianissimi sono assai suggestivi e limpidi ma hanno tutti lo stesso colore, i passaggi più drammatici invece esplodono con una brillantezza esteriore che pare totalmente avulsa dal resto. Tabachnik sembra destarsi nello Scherzo, dove indovina un’esposizione tesa e serrata che riesce spiazzante perché inattesa ma si spegne nuovamente in un Finale debole e chiuso malamente.
Insomma se davvero c’è in questa sinfonia qualcosa di lacerante e tormentato, Tabachnik lo lascia tra le pagine della partitura limitandosi a un pregevole ma incostante esercizio di calligrafia. Spiace perché l’Orchestra della Fenice si conferma, per lunghi tratti, ad alti livelli.
La Marcia Funebre di Sigfrido che apre il concerto scivola via in una sostanziale correttezza.
Pubblico tiepido e confuso.
Paolo Locatelli
[email protected]
© Riproduzione riservata