martedì , 3 Dicembre 2024
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Ceci n’est pas un article musique

C’è chi dice che la provincia ti chiude, ti comprime, al limite ti uccide. E forse, in parte, è anche vero. Lo è di certo se la provincia diventa una condizione mentale, invece che solamente geografica. La provincia, e le sue costrizioni, però, possono anche generare qualcosa di bello. Qualcosa che si oppone alla mentalità comune, all’essere in un certo modo non per volontà ma per un certo qual obbligo derivato dall’ambiente circostante.

Capita, alle volte, che in provincia nascano locali che si discostano da quello che ti aspetteresti di trovarvi, o si formino gruppi musicali che forse proprio dalle costrizioni di un ambiente tendenzialmente chiuso ricavano la loro forza e la loro particolarità.

Questa volta il locale era il Gnagne Sese, il gruppo la Gap’s Orchestra.

Il Gnagne Sese è un’osteria di recente apertura che fin da subito si è contraddistinta per essere, da un lato, legata alle tradizioni della terra in cui risiede, evidente nelle forme dell’arredamento e delle proposte eno – gastronomiche, e, dall’altro, coraggiosa nel promuovere, ogni settimana, gruppi musicali emergenti o semplicemente poco conosciuti nel panorama più mainstream.

Il gruppo di questo martedì era la Gap’s Orchestra, progetto da poco avviato e partorito dalle menti di tre ragazzi udinesi, singolari nell’aspetto e negli atteggiamenti, di certo confacenti alle proposte ed agli obiettivi che tale gruppo si pone.

Parlare di questo gruppo, a livello di ambizioni musicali così come anche in relazione al messaggio che gli stessi vogliono lasciare al proprio pubblico, equivale, in un certo senso, ad interrogarsi sullo status attuale della società, intesa sia come insieme di individui che come apparato formale e burocratico.

Appare evidente già dall’esibizione come l’intento del gruppo sia quello di porsi in aperto contrasto e confronto con l’istituzione, nel senso più ampio del termine: predicano l’astensionismo quale unica arma rimasta in mano al popolo, si indignano di fronte ai cosiddetti ‘finti rivoluzionari’, vedono nel movimento dei forconi siciliano – e nel conseguente risultato elettorale regionale – un esempio da esportare.

Anche il nome del gruppo può essere interpretato alla luce di questa ‘linea di pensiero’: gap, in inglese, vuol dire varco, certo, ma per i componenti del gruppo il significato vero e sentito del nome stesso, anche se forse scelto a posteriori, è quello rappresentato dall’acronimo utilizzato da alcuni gruppi partigiani, i Gruppi d’Azione Patriottica, che, pur essendo affiliati al Partito Comunista, si contraddistinsero per l’essere, in un certo senso, super partes, combattendo tutti coloro i quali non si rifacevano ad ideali di giustizia sociale.

Insomma, vi è certamente una forte componente di denuncia nelle tematiche espresse sotto forma di spettacolo musicale e teatrale.

Alla luce di ciò, tuttavia, potrebbe risultare quantomeno strano il modo in cui essi sono riusciti, in un certo senso, a farsi strada e a farsi conoscere. All’inizio della loro carriera i tre musicisti infatti hanno deciso, com’è consuetudine ormai, di utilizzare in maniera pesante e un po’ virale i social media, Facebook prima, Youtube poi, condividendo video musicali autoprodotti e, soprattutto, accompagnando gli stessi con precise indicazioni per l’inerte utilizzatore del mezzo: condividi, clicca qui, metti mi piace.

Due le ‘filosofie’ alla base di queste decisioni: l’esistenza vista esclusivamente come relativa a ciò che la società sa (e pensa) di sé stessi e la convinzione che l’identità critica sia ormai un gene quanto meno recessivo per l’attuale popolazione.

Idee forti, ma di certo non sbagliate. Basta guardarsi intorno, con occhio clinico e distaccato, per accorgersi che, a quanto pare, è proprio in questa direzione che si sta andando: verso una società sempre più succube degli input, spesso impliciti, che arrivano dall’alto.

Alla necessità di porsi in diretto rapporto con il pubblico si collega anche la decisione di partire, durante l’estate, per un busker tour che ha toccato diverse località italiane, spingendosi fino all’estremo sud della penisola, con un interesse del pubblico che cresceva al diminuire della latitudine. Anche in questo caso la volontà era certamente quella di imporsi sulla scena, di proporsi allo spettatore non per decisione di quest’ultimo, ma in maniera quasi più autoritaria: è di certo una situazione ben diversa rispetto a quella della serata del Gnagne Sese; in un locale buona parte del pubblico è costituito da persone che lì si trovano proprio perché interessate a quel gruppo o a quella musica; sulla strada, invece, il pubblico è eterogeneo e diversamente interessato, e questo amplifica le reazioni dello stesso, in entrambi i versi.

Insomma, più che di musica, con i Gap’s Orchestra si parla di società, di ideologie e di pensieri.
Ma, come ben ci hanno insegnato i grandi cantautori degli anni ’70, e come tutt’ora ci insegnano quei pochi buoni gruppi che tentano ancora di smuoverci da una condizione di ascoltatori esclusivamente passivi, la musica, e l’arte, non sono solo di conforto al cuore ed all’anima per bellezza, ma anche per le capacità che hanno le stesse di attivare in noi pensieri, ricordi ed emozioni.

Elisabetta Paviotti

(Immagine © Benoit Jammes)

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