Ieri prima al Rossetti dello spettacolo “Crucifige”di Claudio Bernardi con scene di Diego Iaconfcic e la regia di Claudio Misculin. Una produzione dell’Accademia della Follia in collaborazione con Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia. Tra gli interpreti: Claudio Misculin, Gabriele Palmano, Donatella Di Gilio, Dario Kuzma, Giuseppe Feminiano, Francesca Hagelskamp, Fabio Portas, Barbara Busdon, Fabio Cassano, Daniel Portas, Derin Kennet. Si parte in modo surreale gli attori, tra le poltrone occupate da spettatori increduli, iniziano offrendo bevande e stucchini in un’atmosfera catatonica che trasmette un senso di angoscia in chi è seduto pensando di assistere ad una piece teatrale. Ma l’inizio è tale per poter veramente affrontare la “malattia mentale” e poterla far incontrare fuori dalle istituzioni, intendendo con ciò non soltanto fuori dall’istituzione psichiatrica, ma fuori da ogni altra istituzione, la cui funzione è quella di etichettare, codificare e fissare in ruoli congelati coloro che vi appartengono. Ero molto più coinvolto, in quanto parte di un pubblico spaesato e guardavo nella sala Bartoli del Teatro Civico di Trieste lo spettacolo “Crucifige”. Come si evince dal nome lo spettacolo rappresenta la vita e la passione di Cristo, partendo da quel “crucifige” che il popolo chiedeva a Pilato per liberarsi di Gesù. La storia è innesta su di una variegata quotidianità di fatti, rapporti, dolori, sopraffazioni e colpe; insomma sulla realtà della vita con una magnifica interpretazione della Zia di Gesù. Anche in questa storia emerge la ricerca di un capro espiatorio. Come nella vita reale tra crisi economiche o sociali, tra malattie e continua esasperazione si nota il persistere nel mondo di un’ ingiustizia umana senza tempo e senza fine. Appagante per il popolo e la scelta di sacrificare l’incolpevole addossandogli colpe non sue, ma tale decisione alla fine non risolve lo stesso malessere che serpeggia nel popolo. Lo spettacolo così coinvolge su diversi piani, quello della rappresentazione storica di Cristo, vittima innocente, e quello della realtà degli attori, le cui vite sono state e sono etichettate dalle istituzioni, ospedale psichiatrico e carcere, vittime, tutti, di quelle paure irrazionali verso la diversità e di quegli stigma ancestrali che portano le Istituzioni a difendersi, con l’esclusione dell’etichettato dal vivere quotidiano. L’interpretazione di Charly Palmano dei suoi personaggi Erode e Kaifa e soprattutto di Pilato, di Donatella Di Gilio come zia di Gesù e la figura di Gesù Cristo interpretata dal sempre fantastico Claudio Miculin coinvolgono lo spettatore, confermando quanto il teatro e l’opportunità di mettersi in gioco, contattando quella parte più vera di se stessi che le etichette non cancellano, offrano possibilità di scoprire e vivere la dignità di un proprio sé “non malato”. Una menzione particolare in questi giorni di battaglia femminile contro la violenza ed il ruolo della donna nella società attuale, viene messa in risalto dalla figura femminile che emerge nella sua grandezza con il significativo dogma di Dio fatto uomo anziché donna a simboleggiare il ruolo di incompletezza del genere umano attraverso la figura maschile. In conclusione si parte con un silenzio dubbioso e spettatori spaesati per un inizio irreale e si conclude con applausi a scena aperta nel finale con persone che si intrufolano dietro le quinte per omaggiare la splendida performance di attori che nulla hanno da invidiare ai mostri sacri del teatro dei mostri sacri.
a. dp.