Recensione – A dispetto di quanto possano pensare i detrattori, sono davvero poche le forme d’arte vivaci e mutevoli quanto il teatro lirico, tanto più se si considera un titolo come La Traviata che negli ultimi anni ha goduto di una fortunatissima serie di allestimenti che ne ha stravolto la storia interpretativa e la percezione presso il grande pubblico. Quindi non sorprende più di tanto che uno spettacolo (pregevole per altro) nato oltre vent’anni fa, risulti oggi, alla prova del palcoscenico, invecchiato o comunque non più freschissimo.
La “Traviata degli specchi”, creata dalla mente di Josef Svoboda per lo Sterisferio di Macerata e vincitrice nel 1992 del premio Abbiati, racconta una Parigi di primo Novecento, salottiera e frivola, persino volgare nell’ostentazione esagerata del lusso e del vizio. Va senz’altro considerato il fatto che l’allestimento, ideato per uno spazio all’aperto, non può non aver risentito della riduzione per il più angusto palcoscenico del Teatro Verdi di Trieste dove arrivava per la prima volta, ricevendo un’ottimo consenso di pubblico.
L’impianto scenico, semplice ma d’impatto, si serve di uno specchio inclinato che sovrasta il palcoscenico, riflettendo a favore di pubblico i tappeti dipinti che fungono al contempo da suolo e sfondo virtuale nonché gli artisti impegnati in scena. Il risultato complessivo è per certi aspetti affascinante, soprattutto nelle scene corali che risultano amplificate o nei cambi di scena, mentre mostra la corda nel gusto eccessivamente bozzettistico, al gusto odierno, di tele e costumi.
La regia, curata da Henning Brockhaus, ha buon ritmo, muove con efficacia gli artisti in palcoscenico e offre qualche notevole spunto, ad esempio la caratterizzazione di Alfredo, affatto estraneo per sensibilità alla società cui appartiene e, forse per questo, capace di vincere il cuore di Violetta. Altre idee tuttavia, come la risoluzione del finale con lo specchio che si verticalizza a riflettere il pubblico in sala mentre il palco va progressivamente spogliandosi, sanno ormai di già visto e hanno perso quell’effetto che potevano avere vent’anni fa.
Jessica Nuccio era una Violetta convincente per quanto riguarda il canto, meno sotto il profilo scenico. La voce ha buon volume, discreto timbro e regge l’estensione richiesta dalla parte – pur con qualche cedimento nell’ottava grave – senza particolari difficoltà; tuttavia lasciavano alcune riserve, forse per l’emozione dovuta alla prima, il lavoro sul fraseggio e soprattutto una certa tendenza a calcare, in modo artificioso, gli accenti e la recitazione.
Merunas Vitulskis era una Alfredo senza particolari qualità, generico nell’accento e nella recitazione, garbato nel canto ma in palese difetto di volume.
Piaceva Vitaliy Bilyy, baritono di bella voce e solida tecnica, capace di modulare il canto dal forte alla mezzavoce. Si può discutere lo stile d’emissione peculiare, per certi versi distante dal gusto italiano (la tendenza ad accentuare gli accenti e gli acuti o a scurire artificiosamente alcuni suoni mantenendo la voce in gola) ma i risultati finivano per convincere ampiamente il pubblico triestino che ha salutato la prova dell’artista con entusiasmo.
Buone nel complesso tutte le parti minori, in particolar modo il Gastone di Alessandro D’Acrissa.
Sul podio dell’orchestra del Verdi, corretta ma meno coinvolgente che in altre occasioni, il maestro Gianluigi Gelmetti offriva tutto il suo mestiere dando una lettura di buon passo teatrale, più attenta a far tornare i conti che a ricercare un’impronta personale; l’orchestra suonava senza sbavature ma con una certa monotonia di colori e piattezza di dinamiche.
Paolo Locatelli
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