Ritornare per una sera al teatro fiorentino cinquecentesco, riassaporare costumi, scenografie, battute, e saperle far riapprezzare, forse più di tanta altra attualità. Questa è la commedia messa in scena da Ugo Chiti e la compagnia Arca Azzurra, ”Mandragola” di Niccolò Machiavelli, al teatro Verdi di Pordenone nelle giornate del 16, 17 e 18 marzo.
In cinque atti e un prologo, la commedia di Callimaco e Lucrezia, mette in luce, con un’attualità di cui solo i grandi autori sono capaci, la corruttibilità tipica dell’animo umano, sia esso cinico come Ligurio, irrazionale come Callimaco, fintamente morale come fra’ Timoteo, o devoto come Lucrezia. La beffa ai danni dell’ottuso messer Nicia condisce questa favola allegorica di quel riso amaro che fu petroniano e sarà pirandelliano. Erede della tradizione classica, Machiavelli tesse una trama asciutta, concisa, disincantata che non può non ricordare il capolavoro dell’autore fiorentino, “Il Principe”. Sebbene a tutti gli effetti una commedia, assolutamente piacevole alla visione di qualsiasi pubblico, la Mandragola riletta da Chiti introduce svariati punti di riflessione. Lo stesso utilizzo sistematico di oggetti semplici – bastoni, una palla e alcuni cubi rossi – viene ricollegato metaforicamente a momenti di riflessione: un bastone sbattuto in terra dopo determinate battute, una palla passata di mano in mano tra i vari personaggi, il variare della disposizione dei cubi rossi. Non serve altro per interpretare questa commedia, il superfluo diviene improvvisamente inutile nel testo geometricamente perfetto di Machiavelli.
Il relativismo del mondo rappresentato è lo stesso che troviamo imperante anche nel quotidiano: l’egoistico desiderio assillante di soddisfazione dei propri desideri, in particolari se più bassi e logori; l’accumulo costante di denaro facile; l’attenzione all’apparire, all’opinione degli altri; il compromesso e l’adagiamento spirituale; l’ipocrisia derivante da ciascuno di questi “nuovi”, o meglio riscoperti, modi di essere.
La visione machiavellica, così ripresa alla lettera nella rappresentazione di Chiti, non sembra avere speranze verso un cambiamento, verso la possibilità di sottrarsi a questo mondo in qualche modo. Ne dà la conferma la figura della Ninfa, una donna, interpretata molto brillantemente da Lucia Socci, ogniqualvolta intervenga in apertura o chiusura d’atto: con uno sguardo esterno commenta, molto anche attraverso le espressioni facciali e i gesti, l’accaduto, le azioni dei personaggi, comportandosi alla maniera dello spettatore cinquecentesco, sempre pronto a incitare, consigliare, ridere degli attori in scena, opposto alla cultura del silenzio in sala a noi cara. È proprio questa vivida figura di donna che chiude la commedia con una “sarcastica eresia popolaresca”, così come la definisce lo stesso regista Ugo Chiti: “Uomini? Donne? La peggio genia del creato! Dio voleva buttare via lo stampo, ma poi, non si sa come, c’ha ripensato. Non poteva fare altro?”
Quella di Chiti è un’ottima rilettura, ma che non ha dato il pienone di pubblico nemmeno alla prima di venerdì 16 marzo: probabilmente, la larga conoscenza dell’opera anche attraverso altre compagnie teatrali, invoglia meno rispetto ad opere di nicchia o completamente ex novo.
Martina Napolitano
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