Un ex magistrato, ritiratosi dal servizio dopo avere condotto celebri inchieste, e il principale cantore dell’Italia contemporanea, regista, drammaturgo e attore sono stati i protagonisti della Fiera delle Parole di Padova. Gherardo Colombo e Marco Paolini si sono confrontati venerdì 12 ottobre nello scenario del festival organizzato dall’Associazione Culturale Cuore di Carta, in collaborazione con il Comune di Padova e l’Università degli Studi patavina. Una folla numerosa e attenta ha affollato la sala del Palazzo della Ragione, la cortina ideale per ragionare, argomentare con la ragione, discutere e confrontarsi. E infatti i due protagonisti sono scesi dal palco per immergersi al centro della folla, confrontandosi, discutendo, stuzzicandosi a vicenda su un tema scottante. Si è parlato di giustizia, di pena e di rieducazione del detenuto. Il titolo del libro di Gherardo Colombo “Il perdono responsabile. Si può educare al bene attraverso il male? Le alternative alla punizione e alle pene tradizionali” (Ponte alle Grazie, 2011) è di per sé significativo. Si parla del perdono, inteso non come fatto meramente privato, ma come un fatto pubblico, sociale e culturale. Il termine ‘perdono’ è centrale sotto tanti aspetti, lo utilizziamo quotidianamente con molteplici significati. ‘Perdono’ contiene in sé la parola ‘dono’, ovvero è associata all’idea di un qualcosa che viene fatto in maniera gratuita, senza aspettarsi in cambio niente. Nel libro, nato nell’ambito dell’iniziativa “Torino Spiritualità”, l’autore parte dalla prospettiva del vivere insieme, determinato dalle regole che gli uomini si danno per ordinare la convivenza. Le regole, che sono il risultato della cultura che le produce, servono a vivere insieme e possono organizzare la società in modi diversi a seconda anche della disponibilità di ognuno di noi a comportarsi gratuitamente nei confronti del prossimo. In questo senso, il perdono diviene una parola centrale anche per quel che riguarda l’organizzazione sociale. Sostiene l’autore che le regole dello stare insieme hanno una caratteristica particolare rispetto a quelle della fisica, della matematica, della geometria, della medicina, delle scienze esatte; queste ultime sono fuori dall’influenza creativa del genere umano, possono essere scoperte, elaborate, disposte, ma non modificate. Le regole del vivere insieme sono modificabili in quanto create dagli uomini, che possono metterci dentro tutto e il contrario di tutto, basti pensare all’evoluzione storica delle società. L’autore indaga poi quella particolare infrazione alla regola per cui ad un reato corrisponde una pena. Gherardo confessa di non amare il termine ‘pena’, che considera inopportuno. “Siamo abituati a ragionare secondo l’equazione algebrica per cui ad un reato corrisponde una pena, alla stregua di quella relazione di causa-effetto che presiede alle leggi della fisica. Come l’acqua bolle a 100 gradi, così il reato provoca il carcere. Il sistema della pena, come è sotto gli occhi di tutti, si è rivelato inefficace nel senso di impedire la reiterazione del reato”, ha commentato l’autore. Per l’ex magistrato bisognerebbe cambiare profondamente il nostro modo di pensare. L’inefficacia è attribuita dalle persone ad un imperfetto funzionamento della macchina giudiziaria oppure all’inadeguatezza del personale preposto. Ma la repressione funziona davvero? Negli Stati Uniti, dove la giustizia funziona, dove in alcuni stati è ancora in vigore la pena di morte, ci sono proporzionalmente più omicidi che in Italia, dove la giustizia non funziona. Ma è davvero un problema di corretto funzionamento? Per assicurare il funzionamento della macchina, bisognerebbe che tutto ciò che succede in termini di omicidi e reati venisse scoperto: in realtà sappiamo che non è così. A suffragare la sua tesi l’autore chiama in causa l’idea di esclusione e di separazione che presiede al nostro sistema “punitivo”. Chi commette reato deve essere “relegato” all’esterno del consorzio civile, al di fuori di quella grande casa che è la società. La reclusione, sostiene l’autore, non è però efficace nei confronti della deterrenza del reato. Vorremmo che le persone che hanno commesso reato, non lo commettessero più. Il problema cardine della riflessione è: come si educa il colpevole? O, più in generale, come si educa? Da Aristotele in poi, abbiamo introiettato l’idea che si impara attraverso la sofferenza, per cui è giustificata la punizione. Attraverso la sofferenza imposta si impara ad obbedire, a non commettere l’errore. Ma, in quest’ottica, non si commette più il reato per paura della punizione, non perché si abbia realmente compreso l’errore. In questo modo si educa all’obbedienza. L’obbedienza è il modo di educare che si addice ad una società non basata sull’eguaglianza, in cui c’è qualcuno che paternalisticamente detta le regole. Educare significa fare obbedire, tanto che il comportamento buono corrisponde ad un premio. La stessa Costituzione Italiana è il prodotto di una società che usciva dall’esperienza traumatica della seconda guerra mondiale e del fascismo. Le regole in essa contenute sono figlie di una cultura secondo cui la dignità umana nasceva da una sofferenza, dall’avere provato sulla pelle l’orrore della società fascista. La sofferenza ha motivato la nascita di queste regole. Ma come possiamo educare le persone ad essere responsabili se le obblighiamo ad essere obbedienti? “Il fatto di cui ci si lamenta, ovvero una sicurezza ridotta”, ha concluso l’ex magistrato, “altro non è che il risultato dello strumento che viene utilizzato per prevenire i reati, il quale si rivela del tutto inadeguato”. Gherardo vuole spostare l’attenzione su un’altra questione: in un reato entrano in gioco due persone, colui che lo commette e colui che lo subisce. Nell’applicare un trattamento di pena al detenuto, per risarcire la società del danno subìto non si risarcisce la vittima. Bisognerebbe inquadrare il problema secondo un’altra ottica e puntare sull’idea di ricomposizione del danno, processo che coinvolge sia l’artefice del reato che la vittima. In stati come l’Italia, la Germania, il Belgio, la Francia e gli Stati Uniti, esistono sistemi di giustizia riparativa, che rappresentano un percorso parallelo alla giustizia tradizionale. Con questo metodo si cerca di riparare la vittima e di rendere consapevole il responsabile senza che questi venga distrutto dai sensi di colpa. Nel settore minorile, in cui non esiste una legislazione vera e propria, si applica questo sistema, col quale si chiede al responsabile e alla vittima se vogliono partecipare a un percorso comune per addivenire ad un incontro. “In Italia il 70 per cento delle persone cui è stato proposto questo percorso ha accettato” commenta l’ex magistrato. Il perdono implica la riaccoglienza dell’altro, nella consapevolezza dell’errore commesso ed è un’azione di responsabilità da parte di chi lo compie e di chi lo accetta. Il percorso molte volte ha successo, perché il colpevole recupera la propria dignità di uomo, mentre la vittima può ottenere risposte alla domanda: perché sono stato scelto proprio io? Conclude citando un dato significativo: “Negli Stati Uniti, nel caso di mediazione penale, si abbatte la recidiva di un buon 25 per cento”. “Il problema è culturale”, sostiene l’autore, “perché non siamo abituati a ragionare in questi termini. Pensiamo ancora che ad un reato corrisponda una pena che il responsabile deve subire per poter essere riammesso e rieducato”. L’incontro si è concluso con l’applauso prolungato di una sala gremita, a testimonianza del calore che circonda l’ex magistrato di Mani Pulite. Il suo libro ha avuto una vasta risonanza e sicuramente farà discutere.
Vito DiGiorgio