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Perché amiamo scrivere? Duccio Demetrio spiega miti e filosofia di una passione

Si è svolto venerdì 21 settembre, nell’ambito della manifestazione Pordenonelegge, l’incontro con Duccio Demetrio, scrittore e professore ordinario di Filosofia dell’educazione presso l’Università Bicocca Milano, fondatore e direttore della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari e della Società di Pedagogia e didattica della Scrittura. A presentare l’evento Massimo De Bortoli, insegnante di filosofia presso il Liceo “Le Filandiere” di San Vito al Tagliamento, collaboratore scientifico della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari e organizzatore di progetti internazionali di politiche giovanili e democrazia partecipativa.

Duccio Demetrio è autore di varie opere, tra cui “Filosofia del camminare” (2005), “La vita schiva”(2007), “L’educazione non è finita” (2009), “L’interiorità maschile. Le solitudini degli uomini” (2010), “I sensi del silenzio. Quando la scrittura si fa dimora” (2012). L’ultimo libro pubblicato è “Perché amiamo scrivere. Filosofia e miti di una passione”, che si pone in una continuità di ideali con libro fondativo dell’autobiografia di Demetrio, ovvero “Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé” (1996), e che ha trovato un’ulteriore sistematizzazione nel volume “La scrittura clinica” (2008).

In “Perché amiamo scrivere” si torna a parlare di scrittura, un tema centrale nella riflessione filosofica di Demetrio, ma in un’ottica diversa, perché qui si cerca di trovare una fondazione mitografica della scrittura. La scrittura non possiede una divinità né dei miti ad essa dedicati. L’autore dedica alla scrittura una decima musa. Il libro è un inno alla scrittura, concepita come “necessità vitale” e “frutto di un istinto autobiografico che proviene dalla dimensione inconscia”, e si rivolge agli scrittori per diletto, ovvero a coloro che cercano nello scrivere una forma di conoscenza di sé. La scrittura è sempre stata interpretata come uno strumento, un veicolo di trasmissione del sapere, ma forse, suggerisce l’autore, può avere una consistenza pratica autonoma, può essere essa stessa produttiva di sapere.

L’amore per la scrittura si presenta come una sorta di demone nell’animo di chi la scopre. Una passione che cresce fino a diventare motivo fondamentale della nostra esistenza; “è una maniera di essere”, un modo di esistere, un basso continuo che ci accompagna nei nostri giorni. La scrittura ci serve per suturare le ferite ricevute oppure per ricercare il perdono, per ristabilire il senso della coscienza, per ricollegarci alle persone lontane o di cui sentiamo la mancanza. La scrittura è qualcosa di totalizzante, appartiene a tutti noi, è un atto d’amore rivolto non solo a noi stessi, ma anche ai destinatari del nostro messaggio. La scrittura è sfida con noi stessi, è capacità di guardare al futuro, è destino.

Nell’antichità classica alla scrittura non è stata associata alcuna divinità. Il libro prende le mosse dalla ricerca delle cause di questa lacuna mitologica. Demetrio, in questo percorso di ricerca delle divinità che hanno accompagnato la storia della scrittura, risale al mito di Eco, la dea che si innamorò di Narciso e al suo diniego fu trasformata in roccia. Eco rimanda alle forme di scrittura primitiva, ai graffiti su roccia e su pareti dei popoli primitivi. Imprigionata nella roccia, Eco si muove con parole mute, silenziose, alla ricerca del “verbo”. Quest’immagine rimanda al desiderio che abbiamo di scrivere qualcosa di noi, della nostra storia, del nostro passato. E il risultato dell’atto di scrivere è la scoperta di qualcosa che prima ci era sfuggito, che non avevamo compreso a sufficienza. La parola affidata alla scrittura non è qualcosa che annichilisce, che ci allontana da noi stessi o che ci svuota come invece fa la “parola orale”. Le parole della scrittura ci riempiono sempre, colmano le mancanze esistenziali, i vuoti, le carenze, sono generative, vengono catturate dalla ninfa Eco che le trattiene sulla roccia in cui è stata trasformata. Ogni parola è l’eco di una parola perduta, sosteneva il poeta francese Edmond Jabès. Per evitare di perderle per sempre, per poterle “imprigionare”, c’è solo una soluzione: affidare le parole al gesto della scrittura. Ma ciò non è possibile se non c’è quello che l’autore definisce “istinto autobiografico”, che ci spinge a scavare dentro noi stessi, nel nostro intimo.

La scrittura ha senza dubbio una funzione terapeutica, ci salva, ci conforta, ma è un’arma a doppio taglio, può trasformarsi in una trappola. Se diventiamo solo scrittura, se perseguiamo solo questo piacere narcisistico, allora essa può rivelarsi un inganno, una condanna, può condurci allo scacco. La scrittura non deve significare chiusura in se stessi e rifiuto del mondo, al contrario deve aprirci al mondo, al confronto con gli altri, all’incontro con l’alterità. Dietro lo scrivere si celano tanti paradossi: la scrittura può operare nella nostra mente dei processi di natura patologica di carattere dissociativo, ma può anche permettere una riconciliazione con se stessi.

Ci sono altre mitologie riconducibili alla scrittura. Lo scrittore cita Mnemosine, dea della memoria. Scriviamo per ricordare, per fermare il ricordo sulla pagina. Ma scriviamo anche per dimenticare, per liberarci dell’inquietudine che ci perseguita. Ecco allora che accanto a Mnemosine compare Lete, la ninfa dell’oblio. Scriviamo per evocare luoghi lontani nello spazio e nel tempo, luoghi dell’infanzia e della nostra esistenza, ma anche per raccontare luoghi in cui non siamo mai stati, perché la scrittura ci proietta continuamente verso il futuro.

Perché a scuola si insegna a leggere e scrivere, ma non spiega questa mitologia profonda che circola nell’atto dello scrivere? Se la scrittura non fosse mai apparsa, cosa ne sarebbe del senso della nostra identità? La scrittura è un gesto silenzioso, fa vibrare la nostra interiorità, la nostra identità. Cerchiamo di rendere visibile il mondo che abbiamo dentro, ma questo tentativo alla ricerca di una parola di verità è destinato a restare atto compiuto. Nel momento in cui crediamo di avere dettato parole definitive, assolute, categoriche, in quel preciso istante tradiamo la scrittura, la sua precipua vocazione, che è quella della ricerca infinita, di porre interrogativi che sappiamo non avranno risposta. Demetrio ha infine evocato il mito di Pandora. Finché c’è vita, c’è la speranza di poter continuare a scrivere, di raccontare se stessi. Quella per la scrittura è una passione vitale, è uno slancio propulsivo che sprigioniamo anche nei momenti più bui e difficili della nostra esistenza. Attraverso la scrittura costruiamo una dimensione d’essere, un Tu, che rende possibile sottrarre la nostra esistenza al nulla, alla nullificazione del senso.

Vito Digiorgio

About Vito Digiorgio

Giornalista pubblicista iscritto all’Albo dei giornalisti dal 2013. Si è laureato all'Università di Udine con una tesi sulla filologia italiana. Collabora con alcune testate giornalistiche on line.

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