Molte cose si danno per scontate. Troppe.
Una delle cose che gli abitanti del nord-est reputano immutabile e sempre presente è la città di Venezia. Raramente ci si ferma a pensare a quante persone viaggiano ogni anno per poterla visitare. Per poterla osservare. Per poterla vivere.
Dall’altra parte ci siamo noi. Noi che ci viviamo vicino, noi che in giro per il mondo si dice “near Venice”, noi che la gita di classe (elementari, medie, superiori) è la classica gita a Venezia.
Ogni volta si cercano nuovi motivi per tornarci, per non annoiarsi. La verità è che Venezia è una città con una personalità smisurata. Trasuda storia, tradizione, essenza. L’importante è ascoltare le sue acque, percepire i suoi spazi, le sue chiese, osservare quei dipinti che hanno forgiato e forgeranno tanti animi.
In febbraio, poi, arriva il carnevale. Non è un carnevale fracassone, ma un mostrare algide maschere di una perfezione stupefacente.
Da due anni mi avvicino a queste persone, a queste maschere. A tratti ne sono spaventato: la loro anima è in parte coperta. Per la maggior parte dei costumi rimane scoperto solo l’occhio. Quell’occhio che per la fotografia rappresenta il tutto, il fuoco di un ritratto, la prima cosa a cui pensare. In quel momento antecedente lo scatto mi pongo la domanda: “riuscirò a fotografare una persona o starò facendo una semplice foto a una maschera”?
Andrea Tomasin